il 28 ottobre del 2022 ricorre il centenario della marcia su Roma. La storia pop contemporanea si nutre di ricorrenze ed anniversari che pare abbiano un potere magico. La forza simbolica della data è tanto più accentuata dagli eventi contingenti della politica Italiana dell’anno Domini 2022, o 100 dell’era fascista. Sicuramente Giorgia Meloni avrà voluto evitare che la data di insediamento del suo governo coincidesse col fatale 28 ottobre. In tal caso, Il carosello di novelli antifascisti sarebbe traboccato, con qualche ragione, da buona parte dei quotidiani nazionali, oltre che dalle storie Instagram del mondo giovanile progressista. Così non è stato, quindi noi possiamo permetterci di parlare solo di Storia, senza la scocciatura di cucire suture spaziotemporali tra un passato immobile ed un presente in movimento caotico.
La marcia su Roma è uno degli eventi più dibattuti della storiografia italiana contemporaneista. Centinaia di interpretazioni per altrettanti fatti si sono susseguite e contraddette. Chi l’ha voluta? Per quale obiettivo e con quale consapevolezza strategica? Perché non è stata fermata? Sono domande che tutt’ora non trovano una risposta univoca, e forse mai la troveranno. Una delle poche certezze che abbiamo, attenendoci ai fatti, è che il 28 ottobre 1922 nessuna squadra fascista marciò su Roma.
Una marcia finta per una dittatura vera
Sembra paradossale, ma il 28 ottobre si ricorda una marcia che non ci fu. Passeggiando per le strade di Roma quel giorno di cento anni fa non avremmo visto nessun baldo giovane in camicia nera e fez fare il passo dell’oca davanti al Quirinale. Le temute squadracce fasciste, in realtà un mucchio di scapestrati violenti con qualche fucile e tanta improvvisazione, erano bloccate a 70 kilometri dalla capitale nelle cittadine circostanti. Roma era difesa dal Regio Esercito Italiano che, malgrado non si fregiasse della fama di macchina militare spietatamente perfetta, avrebbe senza dubbio annichilito la caotica compagnia squadrista guidata…non da Mussolini.
Il futuro Duce non si trovava infatti nelle campagne laziali a guidare i suoi prodi verso la conquista del potere, bensì a Milano (alcuni dicono a casa della sua amante) in attesa di capire gli sviluppi degli eventi ed eventualmente scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. Un’idea che gli tornerà ventitré anni dopo in ben più drammatica occasione.
La situazione sembrava insomma preludere ad un tragicomico epilogo del fascismo, spazzato via dalle cannonate regie come successe all’impresa fiumana di D’annunzio. Ma allora perché, qualche giorno dopo, Mussolini assisteva da Presidente del Consiglio a fianco del Re, alla marcia, stavolta vera, delle camicie nere nell’Urbe?
La marcia della politica
Per capirlo dobbiamo fare una rapida fotografia dell’Italia in quegli anni. Nel 1918 il nostro paese usciva vittorioso ma “mutilato” (o automutilato dato il modo in cui la vittoria è stata politicamente sprecata) dalla Grande Guerra.
Le elezioni del 1919 videro un trionfo dei socialisti che, alla guida delle masse proletarie in cerca di riscatto, ottennero la maggioranza relativa in parlamento. Vittoria che non seppero però sfruttare a causa delle divisioni interne tra rivoluzionari e riformisti, all’indecisione dei vertici del partito ed alla iniziale indisponibilità a collaborare con le altre forze politiche “borghesi”.
Le quali forze borghesi, incarnate nei vari partiti liberali dell’epoca, caracollavano tra la paura di perdere il potere, le accuse per non aver sfruttato la vittoria militare sui tavoli diplomatici ed il logorio dovuto a 70 anni di compromessi per modernizzare il paese con risultati contradditori.
In questo quadro di paralisi dello stato liberale, Benito Mussolini iniziò a plasmare il suo movimento raccogliendo reduci, sbandati, nazionalisti e varie personalità ai margini della vita pubblica italiana. I Fasci Italiani di Combattimento, poi Partito Nazionale Fascista, erano contemporaneamente un partito politico ed una milizia armata. Negli anni fra il 1919 ed il 1921 il nostro paese fu insanguinato da una terribile ondata di violenza. Le squadre eversive del fascismo, non sempre sotto il controllo di Mussolini, scatenarono una reazione omicida contro le formazioni socialiste che stavano terrorizzando la borghesia italiana con lo spettro della rivoluzione proletaria. Nelle città e nelle campagne si susseguirono decine di pestaggi, distruzioni, attentati ed omicidi.
Il Re immobile
Tutto questo flusso magmatico di sangue, bandiere, minacce e polvere da sparo, si concentra in un singolo piccolissimo punto nella mattina del 28 ottobre. Precisamente nel pennino impugnato da un uomo alto un metro e cinquantatré con i baffi a manubrio. A Vittorio Emanuele III Re d’Italia viene presentato il decreto per dichiarare lo stato d’assedio già sottoscritto dal dimissionario Presidente del Consiglio Luigi Facta. Firmandolo, il Re spazzerebbe via il fascismo dalla Storia. Vittorio Emanuele III si rifiuta di firmare. Il 29 ottobre giunge a Benito Mussolini un telegramma in cui il Re gli chiede di recarsi a Roma per ricevere l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Da quel momento Mussolini rimarrà ininterrottamente capo del governo per i successivi 21 anni, rendendo progressivamente lo Stato dittatoriale e totalitario.
Perché il Re non ha voluto firmare il decreto “fascisticida”? Su questa domanda le interpretazioni storiografiche si moltiplicano, e probabilmente vi è una parte di verità in tutte. Non era totalmente sicuro che l’intero esercito gli fosse fedele, temeva una guerra civile, si illudeva di poter addomesticare il fascismo imbrigliandolo nei gangli della democrazia parlamentare, gli faceva comodo usare Mussolini ed il fascismo come arma contro socialisti e repubblicani, aveva semplicemente una indefinita e profonda paura che ne paralizzò l’azione, esattamente come successe al termine del ventennio in quel tragico 8 settembre 1943. L’inizio e la fine dell’era fascista sono segnati dai tentennamenti di un monarca insicuro.
La storia insegna?
Possiamo trarre un insegnamento futuribile dallo studio di questo evento passato? La Storia è materia delicata e fragile; estrapolarne delle parti per attualizzarle come strumenti di comprensione del presente e di visione del futuro è compito possibile ma rischioso. Certamente la vicenda della Marcia su Roma ci mostra che gli eventi possono scivolare e precipitare in maniera imprevista. Che le dinamiche accumulatesi sotto traccia durante anni possono scattare in un singolo momento concretizzandosi in un gesto fatto o non fatto, come apporre la propria firma su di un foglio.
Che quella che pareva essere la fallimentare marcia di figuri ridicoli, seppur violenti e sporchi di sangue, si è trasformata in una dittatura ventennale che ha trascinato l’Europa nel baratro della più grande tragedia di sempre.
Fonti: