Fascismo e antifascismo oggi: una definzione (quella dei Sentinelli)

Chi avrebbe mai immaginato di sentir cantare “Maledetta Primavera” a un corteo del 25 aprile? Probabilmente nessuno. Eppure, da qualche anno, ogni anno, succede. E capita sempre più spesso di vedere cantarla ragazzi ormai maturi che sono stati partigiani. La responsabilità è dei Sentinelli di Milano, che ormai da cinque anni hanno capito che “spaccare i muri”, passa anche dal cambiare il modo di fare memoria. E non è una forzatura. Lo raccontano nel libro “I Sentinelli. Che fretta c’era“, pubblicato a settembre 2019 da Edizioni Tlon.

Nell’estratto che segue, il punto di vista dei Sentinelli su fascismo e antifascismo oggi, a partire da una colonna sonora sorprendente: Chi da bambino non ha mai canticchiato “Maramao perché sei morto/pane e vin non ti mancava…”? Ebbene, negli anni Trenta, gli antifascisti livornesi hanno preso in giro così, sulla sua tomba, il gerarca locale, Costanzo Ciano, padre del Galeazzo poi genero di Mussolini…

Anche loro avevano capito che la canzonetta ballabile che si serve di metafore per raccontare l’attualità e la politica è un espediente senza tempo, utilissimo per far sentire chi l’ascolta parte di una comunità depositaria di una spiegazione unificante, di un progetto comune e di una propria lingua condivisa, sicura e nota a chi ha gli strumenti per decodificarla. È da queste canzoni, prima che da quelle di lotta, che ha preso forma e suono la risposta al fascismo. Perciò sono queste le canzoni che i Sentinelli hanno scelto di portare in piazza e lungo il corteo del 25 aprile.  Vero è che la Resistenza al fascismo, in cui i Sentinelli riconoscono uno dei loro due capisaldi, irrinunciabili al punto da essere espressi fin dal nome, è innanzitutto una data storica. Una data da ricordare e da tramandare con la fermezza della memoria. L’antifascismo è stato inserito dai Sentinelli tra le loro parole chiave. Ma l’esperienza dei Sentinelli ha insegnato loro che, perché il passaggio di testimone sia efficace, non può staccarsi dalla quotidianità. E allora è parso naturale farlo attraverso quanto di più comune si può trovare, la musica. E ritrovare la freschezza con cui quelle strofe erano state pensate e cantate all’origine, per essere “barlumi di resistenza quotidiana”. Canzoni di lotta che, in ogni caso, sempre di più fanno paura a qualcuno.

Però non bastano i suoni, perché la Resistenza somigli anche a chi oggi nasce senza conoscere il significato della parola “guerra”. E allora, accanto alla Resistenza e alla musica, alcuni hanno cercato altre strade.
Si cerca, e così hanno fatto i Sentinelli, di costruire percorsi di avvicinamento al 25 aprile, attraverso punti di vista o aspetti poco noti, capaci di dare una tridimensionalità alla ricorrenza ma anche di dilatare il tempo di quella giornata. Ci si mette sulle tracce dei luoghi sconosciuti della Resistenza, ad esempio cercando i cippi che raccontano le storie di chi ha resistito, il rapporto tra i Partigiani e il cibo. Il ragazzo ucciso, la staffetta incinta di nove mesi morta il giorno prima della Liberazione, la donna che dava da mangiare ai Partigiani. Per ogni 25 aprile c’è un mondo. Perché la pianta torni a crescere, perché sia mantenuta e preservata, non basta un giorno solo. Serve disinnescare la narrazione  su presunte “cose buone che non esistevano, ma serve anche scegliere un linguaggio più ricco per celebrare la Liberazione e rinnovare la Resistenza. Una lingua che somigli a quello di Parigi, ad esempio, in cui la Liberazione significa balli per la strada. Il giorno della Liberazione accanto ai Sentinelli significa quindi consapevolezza quanto gioia, festa. Vuol dire sempre più ex partigiani che cantano Maledetta primavera, significa disco anni Settanta. Avrebbe potuto significare, ad esempio, anche scegliere di fare una festa in un locale. Si sceglie di portarla in piazza, invece. All’aperto, non tra quattro mura. Perché essere liberi disegna un mondo che è anche questo. Un tempo pieno di tutto quello che, senza, non sarebbe stato nemmeno concepibile. Nell’antifascismo dei Sentinelli suonano le parole di Vittorio Foa, partigiano, che all’invito del repubblichino Giorgio Pisanò di dimenticare le contrapposizioni, tra i banchi del Senato, rispose: «Abbiamo vinto noi e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o in galera».

Fare festa, fare anche della Resistenza il luogo della leggerezza, significa riconoscere cosa sarebbe successo se, e cosa è successo invece. Nel mondo che si sarebbe costruito sarebbe stato impossibile uscire con gli amici, quale che sia la loro faccia, la loro storia, la loro provenienza, le loro idee. Non si sarebbe potuto ballare canzoni americane, inglesi, francesi. Il jazz, il pop, e persino il rap (ma pure la trap). Non sarebbero mai esisti. Farne il centro della celebrazione, farne strumento di Resistenza, invece, non è un’operazione di svecchiamento. È riconoscere il mondo che ne è stato costruito. Un mondo dove la Resistenza, però, non è finita.  Come recita lo striscione che il gruppo porta in corteo “La Resistenza non ha scadenza”, ed è possibile nutrirsene anche oggi, a settant’anni dalla sua dimensione storica. Per non fare del concetto di Resistenza un contenitore buono per tutto, occorre che anche il termine “fascismo” abbia un suo preciso, incontrovertibile significato. Per i Sentinelli è molto chiaro: fascismo è aver identificato un nemico e pensare che solo annientandolo, cancellando il suo diritto a esistere, tornerai a stare bene, anche se non lo sei mai stato prima.

A dimostrare che non si tratta di una semplificazione partorita dai Sentinelli, non ci sono soltanto i libri di storia o altri saggi che sostengono la stessa posizione, variamente divulgativi e documentalmente sostenuti. C’è la voce diretta di Adolf Hitler, in una conversazione col gerarca di Danzica, Rauschning, riportata da György Lukács ne La distruzione della ragione: «Altrimenti li dovremmo di nuovo inventare [gli ebrei]. L’essenziale è avere sempre un avversario visibile e non semplicemente astratto». Così diventa evidente come al fascismo non si possa dare una data di fine, archiviando la fine della sua manifestazione istituzionale come un obiettivo raggiunto di cui dimenticarsi. Anche il cambiamento del suo volto non ha una data, ma oggi coloro che si rivendicano antifascisti lo fanno perché sono nati sulla consapevolezza di un cambiamento, la cui responsabilità è anche di chi, identificandosi nell’antifascismo, ha creduto di aver portato a termine il compito, chi non ha saputo o voluto vedere un volto che mutava. Settant’anni fa era perfettamente riconoscibile l’espressione arcigna di un nemico che si era battuto. Oggi ha i tratti più sfumati di tante neoformazioni cresciute ed esplose come cellule impazzite dentro un corpo che si diceva sano, ma che in sette decenni di democrazia, come il più stereotipico degli ipocondriaci certo di una sorte tragica e terrorizzato, ha continuato a rimandare l’appuntamento dal medico per fare i conti con i bacilli che covavano dentro i suoi organi. Queste neoformazioni, talvolta, affiorano sulla pelle in forma di escrescenze fatte da chi la parola “fascismo” non solo non la nasconde più, ma la usa e la rivendica, se ne identifica. Talvolta sono segni nascosti, apparentemente insignificanti. Se non se ne sorveglia il cambiamento di forma e la moltiplicazione – si chiedono molti gruppi antifascisti – a quale stadio ci si accorge se sotto la pelle covano cellule maligne?

Sotto quale categoria inserire un editore che, dichiarandosi fieramente fascista, individua nell’antifascismo «il vero male di questo Paese»? In quale un leader di movimento politico che, interrogato sulla propria posizione rispetto a un uomo che aveva sparato in mezzo a una strada del centro Italia, ritrovandone i motivi nel Mein Kampf che teneva sul comodino, risponde: «Non sono mica Hitler. Mai stato nazista. Fascista sì, invece». Dichiarazioni, adunate e prese di posizione fanno intravvedere agli antifascisti un fascismo strisciante, più o meno orgoglioso di chiamarsi con questo nome. Declinato nella negazione dei diritti, al di là delle parole che si usano per definirli. Se è vero che omofobia e fascismo non sono sinonimi, è pur vero che il sistema ideologico e politico fascista si reggeva e si sostanziava sull’esaltazione della famiglia tradizionale, e faceva il suo perno del simbolo dell’uomo virile, attivo e poco incline a debolezze femminee. Se nelle leggi razziali promulgate in Italia nel 1938 non si fa menzione di leggi contro l’omosessualità è perché, come ebbe a dire Mussolini, «in Italia sono tutti maschi». Una convinzione, per inciso, che pure non gli impedì di mandarne al confino diverse centinaia di persone, come racconta la graphic novel In Italia sono tutti maschi e come accenna il celebre film di Ettore Scola Una giornata particolare. Non solo: se una parte politica regge il proprio consenso elettorale sulla protezione delle frontiere, sulla dimostrazione di forza attraverso cui stabilisce chi è cittadino e chi no, chi può varcare e chi no i propri confini, sintetizzano i Sentinelli, non fa che sancire in modo più colloquiale la distinzione tra esseri umani di serie a e di serie b, con la sola colpa di appartenere a una etnia o di essere nati in un luogo diverso messa nero su bianco dal manifesto della razza. Una fetta di persone che si trovano improvvisamente a essere percepite come diverse, un nemico senza volto da cui accreditarsi come liberatore. Del resto, come direbbe l’alter ego nera di Michela Murgia che impartisce Istruzioni per diventare fascisti, «Non si diventa fascista senza un nemico, perché il fascismo per porsi deve opporsi». Così l’antifascismo oggi si è fatto anche portando in corteo i volti di Sandro Pertini, Pablo Neruda, scacciato dalla dittatura cilena, Miriam Makeba, Mama Africa, esiliata dal regime dell’apartheid sudafricano. E poi ancora Piero Gobetti, Chico Buarque, iconico musicista brasiliano esiliato per aver cantato – eccolo, il potere della canzone – contro la dittatura militare brasiliana. Ma anche Rigoberta Menchù, portavoce del movimento di liberazione degli indios del Guatemala, insieme ai quali aveva resistito all’espropriazione e alla repressione militare, a dimostrare che un metodo è tale, a prescindere dalla latitudine o dal momento storico in cui viene applicato, e dietro alle storie celebri le facce che nessuno ricorda di chi si poteva incontrare e si incontra ogni giorno sull’autobus.

Per i Sentinelli, ad esempio, antifascismo significa non far finta di niente sul tram o nell’ufficio pubblico davanti a chi dice «Non se ne può più, tornino a casa loro!». Fare antifascismo oggi, per gruppi come loro, significa mettere al centro le vite delle persone, e ritrovare il piacere di fare quel che il fascismo non avrebbe permesso, dall’ascoltare musica al riempire un foglio bianco con la propria opinione, quale che sia.
Prestando attenzione, avvertono, al fatto che oggi i neofascisti si presentano come chi porta la pasta nei quartieri popolari, fanno le collette davanti ai supermercati; attraverso il soddisfacimento delle necessità, un compito che storicamente era stato appannaggio degli antifascisti, trovano lo spazio per riproporsi in modo nuovo. L’antifascimo ha spesso lasciato così lo spazio al sedimentarsi di un pensiero che prende forma nella creazione di un nemico. Nemico che pure – e questo è il paradosso delle nuove forme di fascismo – è lo stesso del quale c’è necessità proprio per soddisfare i bisogni primari. L’uomo che viene additato come diverso è lo stesso che, nelle albe delle campagne estive, è caricato insieme a decine di suoi simili su camionette scalcagnate per andare a raccogliere pomodori per due euro a cassetta per dodici o quattordici ore al giorno. Eppure, si ripete, il fascismo è ormai passato. La Costituzione, tuttavia, chiarisce che fascismo si ha anche:

Quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista

orientando – ad esempio – la risposta collettiva a disagi o tragedie come la morte di una ragazza o il degrado dei quartieri di provincia, appropriandosene come occasioni di propaganda. Queste sono le molte facce del fascismo; le facce di chi, notano i Sentinelli, «alza l’asticella ogni giorno un pochino di più. Ti fa sembrare sempre più normale cose prima impensabili un pezzo di frase alla volta».


I Sentinelli. Che fretta c’era?

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