La scuola dell’obbligo finisce per un ragazzo italiano dopo dieci anni di istruzione, praticamente al compimento dei sedici anni di età. Dopodiché chiunque potrebbe benissimo pensare di abbandonare gli studi e dedicarsi ad altro. Nessuno potrebbe impedirgli il contrario. Già qui possono sorgere dei dubbi. È corretto il fatto di passare il messaggio alle giovani generazioni che, in sostanza, raggiunti i sedici anni si può tranquillamente smettere di studiare e imparare? Nell’immaginario odierno, fortunatamente, il proseguimento degli studi e il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado sono pressoché automatici.
Alcune problematicità
Nonostante questo, il fenomeno della dispersione scolastica rimane comunque vivo nel nostro Paese. Nel 2017, per esempio, i dati ci dicono che tra gli anni della scuola media e quelli delle superiori circa 135 mila ragazzi hanno abbandonato gli studi. Numeri che non sono proprio bassi rispetto ai due milioni e mezzo di iscritti alle scuole superiori e al milione e settecento di quelli delle elementari. Insomma, in Italia purtroppo l’abbandono scolastico è ancora una piaga non di poco conto.
Tante sono le motivazioni che possono spingere un adolescente ad interrompere gli studi o a rifiutare di iscriversi a scuola. Motivi famigliari, rifiuto e non propensione allo studio, condizioni sociali difficili o semplicemente preferenza ad entrare nel mondo del lavoro.
Tuttavia, il punto su cui vogliamo focalizzarci è un altro. Collegato ai numeri e alle considerazioni sopra, tiene conto di tutti coloro che decidono di iscriversi alla scuola superiore di secondo grado. Ovvero, come da titolo, la scelta che i ragazzi prendono in merito al percorso di studi che affronteranno alle superiori.
La scelta
Ogni anno, durante gli ultimi dodici mesi di scuole medie, centinaia di migliaia di ragazzi si trovano a dover rispondere a un quesito, forse il più difficile: “che scuola faccio l’anno prossimo?”. In risposta a questa domanda si fanno avanti idee, proposte, pareri personali o di terzi. Partiamo da una constatazione che può sembrare scontata: la risposta non è semplice e assoluta. Per vari e provati motivi. Iniziamo da quello che accomuna più o meno tutti, ovvero l’età in cui si effettua questa scelta. Quattordici anni possono sembrare l’età giusta per determinate situazioni oppure troppo prematura per altre. È dura capire se così giovani si hanno già le idee chiare sul futuro e su quello che si andrà a fare e studiare. Alcuni sicuramente le hanno già, ma per la maggior parte non è così semplice.
A questa età, anche se i tempi cambiano con una rapidità mostruosa, i giovani stanno crescendo in tutto e per tutto. Sia fisicamente che mentalmente e caratterialmente. Sono in una fase in cui stanno conoscendo loro stessi e probabilmente ci impiegheranno anni prima di arrivare ad una conclusione certa e di conoscersi definitivamente. Quindi questa decisione, che probabilmente è una delle più delicata che abbiano preso fino ad ora deve essere “accompagnata” e non imposta innanzitutto. Non attraverso test sull’attitudine o mettere su una scala da uno a dieci le attività che piace fare o meno.
Tra cosa scegliere?
Liceo classico, artistico o scientifico? Oppure perché non un indirizzo più tecnico o un indirizzo professionale? Le opzioni a disposizione dei giovani rimangono comunque varie e differenziate. Cambiano le materie, i tipi di corso e i “temuti” sbocchi professionali. E proprio questi ultimi sono quelli che destano più attenzione tra gli studenti e i loro genitori. Perché il pensiero, giusto o meno che sia, punta sempre in quella direzione. “Che tipo di lavoro posso fare finito il percorso scolastico che ho scelto?” “Questa scuola mi permette di avere una formazione tale da poter trovare un impiego appena metto il piede fuori dalla porta?”. Domande che si pone soprattutto chi è interessato a istituti tecnici o professionali. Ebbene, qui si scatena quella che si può definire come “la caccia allo studente”.
Come conoscere l’offerta?
Partiamo dal fatto che la scuola pubblica non si finanzia completamente da sola e che i corsi di studio per vivere hanno necessariamente bisogno di iscritti. Detto questo, non è proprio che gli istituti debbano cadere nella trappola del “marketing scolastico”. O di un’eccessiva differenziazione del prodotto. Quindi, in che modo i futuri studenti si approcciano o conoscono i corsi di studio che andranno ad affrontare? Il primo passo è l’ormai rinomato Open day, un servizio davvero essenziale e molto utile. È nel momento in cui partecipa che lo studente non viene più considerato come tale, ma prende le sembianze di un possibile acquirente.
Gli insegnanti, i presidi e tutto il personale scolastico si rimboccano le maniche per far sì che durante quella giornata i ragazzi tornino a casa con l’idea di scegliere la loro scuola. Si ingegnano per mostrare le virtù della loro offerta formativa. Elencano senza fine le attività che si potranno svolgere all’interno e all’esterno dell’edificio scolastico. E per finire, con orgoglio e a petto in fuori, mostrano le statistiche che vedono il loro istituto posizionarsi in varie classifiche provinciali, regionali, e nel miglior nei casi, statali per un alto tasso di studenti che hanno trovato subito lavoro dopo aver frequentato quelle classi. Oppure numeri che mostrano la crescente domanda di iscrizione a quella scuola. Insomma, il concetto che vogliono mostrare è chiaro: “scegliete noi perché siamo i migliori”.
Esiste il classismo scolastico?
Ma esistono davvero percorsi formativi migliori di altri? Non sarebbe più corretto e dignitoso mostrare agli studenti le conoscenze che andranno ad acquisire, quali caratteristiche personali andranno a sviluppare e non che tipo di mansione andranno a svolgere una volta chiusi i libri? Anziché etichettare subito i ragazzi in ragioniere, geometra, “perito di…” e altre figure che giustamente devono essere esplicitate perché questo è uno dei fini della scuola.
Uno degli obiettivi, forse il più alto e il più difficile della scuola, è quello di far sviluppare agli studenti la propria identità, di far emergere le loro virtù e plasmarli non come lavoratori ma prima di tutto come persone. Gli istituti devono essere innanzitutto una scuola di vita, uno spazio dove sia possibile per gli studenti costruire prima di tutto sé stessi.
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