Uomini e donne sono diversi?


Uomini e donne sono diversi?

La diversità di genere è ancora oggi un argomento saliente, sul quale ci si confronta spesso in famiglia, fra amici, colleghi di lavoro. Nonostante le palesi differenze biologiche e le uguaglianze intellettuali, è necessario volgere uno sguardo analitico e oggettivo al tema.

La diversità di genere, se non del tutto superata, si è comunque ridotta rispetto ai decenni precedenti. Non è possibile dunque sorpassare la tematica e dire di aver raggiunto l’obiettivo finale, ma ci è concesso un sospiro di sollievo in merito ad alcuni recenti risultati.

Analizzeremo quindi le svariate differenze biologiche, mentali e sociali, portando degli esempi concreti a supporto di ciascuna di esse.

Competitività e differenze in ambo i sessi: qual è la correlazione con lo status e le aspettative sociali?

Un primario oggetto di analisi è la propensione a competere di entrambi i sessi e come quest’ultima vada a influenzare le modalità lavorative. Svariati studi contemporanei, quale l’esperimento “Status Ranking and Gender inequality: a cross-country experimental comparison”, possono esplicare i divari presenti. In tale studio, realizzato in Italia, Olanda e Spagna, vengono presi in considerazione due gruppi misti di uomini e donne.

A questi ultimi, veniva richiesto di svolgere un esercizio in cui dovevano sommare dei numeri presentati in delle matrici, venendo pagati per ciascuna somma corretta. Mentre il primo gruppo ha svolto il lavoro privatamente, per quanto concerneva i risultati e la posizione in classifica del secondo, esse venivano pubblicamente comunicate. In tutti i paesi presi in considerazione, quando l’esercizio del lavoro era privato, donne e uomini avevano ottenuto risultati similari. Per quanto riguarda invece Spagna e Italia, nel momento in cui l’esercizio veniva svolto pubblicamente, il sesso femminile performava in modo peggiore, probabilmente intimorito dalle aspettative sociali e dalla pressione relativa al paragone con altri soggetti.

I comportamenti pubblici e privati ci permettono così di rilevare l’importanza dello status sociale e in particolare degli stereotipi di genere in merito alla performance del singolo. Pur di conformarsi dunque a canoni societari, a ciò che una donna può o meno ambire, le donne tendono a scegliere lavori meno remunerati. Ciò non è dovuto a una mancanza di sicurezza in sé, capacità, ambizione o spavalderia, ma più che altro a un autolimitazione a ciò che la società si aspetta da queste ultime.

Per poter avere una visione oggettiva, è necessario prendere in considerazione l’intera penisola italiana. Per far ciò, ci avvaliamo dello studio Istat condotto nel 2020, il quale evidenzia i dati relativi al mercato del lavoro.

Situazione di disparità lavorativa in Italia

Ciò che emerge maggiormente dallo studio sopracitato, è la disomogeneità dei valori relativi al tasso di attività femminile all’interno delle svariate regioni. Se la questione dunque fosse meramente biologica, queste differenze non vi sarebbero. Le donne inattive risultano essere il doppio rispetto agli uomini e la motivazione principale di ciò sono i motivi famigliari. Secondo il Rapporto Istat, nel primo trimestre del 2021 gli uomini che non cercano lavoro per tale motivo sono solo il 2,8%, mentre le donne il 33,7%.

Un ulteriore condizione che influenza il lavoro delle donne è la cosiddetta child penalty, ossia gli effetti che la maternità produce sulla situazione occupazionale e sul reddito delle neo-mamme. Nel periodo successivo al congedo è infatti possibile osservare un calo numerico delle ore lavorative e dei salari medi di queste ultime, le quali spesso richiedono part-time per potersi adattare alle esigenze relative alla cura dei figli. Le lavoratrici che dovessero volere dei figli, avrebbero dunque delle prospettive fortemente penalizzanti che non si esaurirebbero nel breve periodo.

Secondo Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, su Lavoce, tali effetti negativi si manifesterebbero anche a numerosi anni di distanza dall’evento. Queste penalità in ambito lavorativo, che non vengono osservate per i papà, possono dunque essere decretate da delle semplici preferenze della donna o dagli stereotipi e dalle norme sociali, che vedono la madre come esclusiva responsabile della cura dei figli.

Tralasciando per un secondo l’aspetto della maternità, è il caso di focalizzarsi invece sulle differenze salariali. Secondo il Global Gender Gap Report, del 2020, una donna guadagna in media 17.900 euro in meno all’anno rispetto a un collega. Nonostante quindi l’inquadramento del soggetto sia il medesimo, la donna, a parità di conoscenze e merito, guadagna nettamente meno.

Tutt’oggi non esiste un paese nel quale si sia raggiunta l’eguaglianza salariale e retributiva, a prescindere dunque da progresso economico e crescita finanziaria. Per Anna-Karin Jatfors, ovvero la direttrice generale dell’ente ONU per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, la disparità retributiva verrà colmata solamente tra 257 anni. Dato a dir poco avvilente e allarmante.

 Che cosa ci definisce? La cultura o la natura?

Sono dunque gli estrogeni e il testosterone a renderci ciò che siamo, o è la cultura nella quale siamo nati e cresciuti?

Secondo gli studi condotti dall’antropologa Margaret Mead, la quale prende in considerazione i comportamenti e l’organizzazione di civiltà ancestrali della Nuova Guinea, la prima forza dedita alla nostra definizione è la cultura.

Osservando le società primitive, assolte da concezioni quali i caratteri attribuiti ai generi, la studiosa ha dunque sottolineato come i ruoli e le aspettative si evolvano nel tempo.

Alcune attitudini sono tutt’oggi definibili come “maschili o femminili” e provengono da concezioni sociali, non dalla natura. Non esiste quindi alcun ruolo sociale che sia congenito. Un esempio riportato dall’antropologa è la civiltà degli Arapesh, nella quale la caccia risulta essere una mansione prettamente femminile. Nonostante i 23 cromosomi che costituiscono il loro genoma siano uguali a quelli nostri, ossia di individui maggiormente “civilizzati”, nella loro cultura non vi è traccia di differenziazione di genere. Le loro differenze fisiologiche, ovviamente equivalenti a quelle presenti tra qualsiasi uomo e donna, vengono poste al servizio del mantenimento della comunità.

Mentre nell’universo sociale occidentale il ruolo genitoriale viene quasi imposto alle donne, aspettandosi dunque la loro completa disponibilità alla crescita dei figli, per gli Arapesh non è scontato. Sono infatti gli uomini a essere maggiormente materni, in quanto non viene insegnato ai bambini di comportarsi come “ometti”.

Conclusioni

Per l’uomo, la cultura rappresenta il condizionante ambientale maggiore. Ciò significa che in assenza di modelli sociali, ruoli e pregiudizi di genere, è l’ambiente fisico a esercitare un’influenza sulle dinamiche e sulla stessa evoluzione degli individui.

L’ambiente di riferimento, nel nostro caso, risulta essere l’ambiente sociale. Quest’ultimo è stato a sua volta condizionato da una determinata cultura, la quale è più forte della natura nello scandire le differenze di genere. Ci è possibile comprendere come tali influenze abbiano plasmato la nostra visione dei ruoli femminili e maschili, comportando una selezione a livello lavorativo, sociale e culturale per ambo i sessi.

Gli stereotipi di genere che sono tutt’ora presenti nel nostro quotidiano, sono stati decretati dalla cultura nella quale siamo nati e dalle aspettative della società. Queste disuguaglianze, dunque, non giovano a nessuno né in ambito psicologico, né sociale e lavorativo.

Dovremmo aspettare davvero più di due secoli per ambire a un’equità salariale?


Fonti

  1. Lavoce.info
  2. psicoadvisor.com
  3. econopoly.ilsole24ore.com
  4. alfemminile.com

Credits immagini

Copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *