Durante il secondo conflitto mondiale, in Giappone approssimativamente 300.000 donne asiatiche vennero costrette allo sfruttamento sistematico del proprio corpo. Uno dei più grandi crimini contro l’umanità ebbe luogo quando il mondo si affacciava ad uno dei più distruttivi scontri della storia. Queste donne, note come Comfort Women, furono illegalmente forzate alla prostituzione per poter far fronte ai bisogni, dell’Esercito Imperiale giapponese. Alcune di loro ancora bambine, con l’inganno o la forza, vennero trascinate al fronte, nelle cosiddette Comfort Station, dei veri e propri postriboli.
Origine del termine
Comfort Women è un termine largamente impiegato per indicare queste donne, dal giapponese ianfu, “colei che dona conforto”. Termine eufemistico alla luce dei brutali trattamenti riservati a queste giovani. La parola stessa implica necessariamente la problematica e desueta concezione della donna come oggetto sessuale, della mercificazione del corpo femminile.
La prostituzione forzata, contestualizzata ad una società fortemente religiosa, basata sui principi del Confucianesimo, nei quali la verginità e la castità erano colonne portanti, diventò motivo di vergogna e conseguente alienazione delle ianfu. Emarginate, considerate impure e un disonore per la famiglia, queste donne, si ritirarono ad una vita di solitudine. Lo stigma legato all’essere vittima di stupro influì largamente sulla scelta di rimanere in silenzio. Conclusasi la Seconda Guerra Mondiale, l’istituzione delle Comfort Women cessò di esistere, ma la testimonianza di queste donne vive ancora oggi.
Il volere dell’Imperatore
La legittimazione di questo brutale sistema ebbe inizio negli anni Trenta del Novecento, a seguito di quello che rimarrà noto nella storia come il tragico Rape of Nanjing. Durante la conquista della Manciuria, una tappa del conflitto Sino-Giapponese, l’Esercito Imperiale si fece fautore dello sterminio, del saccheggio, delle violenze, della città di Nanjing. Circa 200.000 civili vennero uccisi ed altrettante donne violentate. Quando l’accaduto venne reso noto, generando lo scontento internazionale, il Giappone corse ai ripari. Nel tentativo di non inficiare la propria immagine, si propose l’istituzione delle Comfort Station.
Comfort Station
Legittimati dallo stesso Imperatore Hirohito, questi luoghi, si proponevano di porre rimedio a tre cruciali questioni. La prima, sicuramente una sanatoria, una debole ammenda per quanto avvenuto a Nanjing. Le violenze, infatti, non potevano permettere di rovinare l’immagine del Giappone in un’impresa coloniale tanto importante. L’Impero si faceva portatore di liberazione dall’Asia dell’egemonia Occidentale. In secondo luogo, la barriera linguistica costituiva un ostacolo ideale nell’osteggiare lo scambio di informazioni in cambio di favori sessuali.
La maggior parte delle Comfort Women proveniva dalle colonie, Taiwan, Corea del Sud, Cina. Moltissime donne provenivano dalla Malesia, Papua Nuove Guinea e Indie Orientali Olandesi, attuale Indonesia. In terzo luogo, per porre fine, o almeno arginare, la problematica delle malattie sessualmente trasmissibili. Inizialmente, infatti, le prime donne costrette nelle Comfort Station furono prostitute giapponesi. Avendo avuto pregressi partner erano maggiormente esposte al rischio di contrarre malattie veneree, o di esserne portatrici, e conseguentemente trasmetterle ai soldati. La scelta ricadde quindi sulle giovani delle colonie.
Il razzismo all’interno delle Comfort Station
La gerarchia razziale, profondamente radicata in Giappone, non fece eccezione nemmeno per il sistema delle Comfort Women. La percentuale delle donne giapponesi è paradossalmente quasi irrisoria. Escluse da questa istituzione poiché venivano considerate in grado di avere prole degna di servire l’Imperatore. Le poche, venivano spesso tenute più lontane dal fronte, servivano generali di alto rango. Le stesse tariffe variavano in base all’etnia “uno yen per una donna cinese, uno e mezzo per una donna coreana e due yen per una donna giapponese”. Moltissime non venivano pagate in denaro ma con dei ticket militari che potevano essere scambiati con cibo o beni di prima necessità.
La questione coreana
Delle più di 200.000 Comfort Women l’80% circa è di discendenza coreana. La Corea divenne colonia nipponica nel 1910 quando, con il Trattato di Annessione, l’Imperatore coreano cedette il potere al Giappone. Da quel momento ebbe inizio il doloroso esodo, forzato, che costrinse più di un milione di coreani fuori dai confini nazionali. L’annessione ebbe ripercussioni sempre più tragiche sull’identità del popolo coreano. Iniziò l’imposizione di nomi giapponesi, la regolamentazione delle unioni etniche al fine di far scomparire definitivamente la possibilità di nascita di bambini puramente coreani. Un vero e proprio genocidio pianificato del quale era parte anche l’istituzione delle Comfort Station.
Le Comfort Women furono oggetto di vere e proprie mutilazioni. Sottoposte ad operazioni per l’interruzione del ciclo mestruale, spesso sterili a causa delle malattie veneree ed ancor più spesso costrette alla somministrazione di salvarsan, noto inoltre come 606, farmaco utilizzato per le interruzioni forzate di gravidanza. Moltissime vennero uccise o si tolsero la vita, in un disperato tentativo di poter sfuggire alle violenze. Alle punizioni corporali, si aggiunsero le umiliazioni, ancor più distruttive dal punto di vista psicologico. Venivano tagliate le trecce o i capelli alle giovani vergini dopo gli stupri.
Fonti:
Peipei Qiu, Chinese Comfort Women, Oxford University Press, 2014
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