La Cina
Attualmente la Cina è il Paese nel quale viene condannato a morte il maggior numero di persone. Non è tuttavia possibile stabilire una stima certa, in quanto le esecuzioni sono protette dal segreto di Stato. Secondo i dati riportati da Amnesty, infatti, delle 981 sentenze emesse nel biennio tra il 2014 e il 2016, solo ottantacinque sono state rese note.
Oggi, nonostante le pressioni da parte della Comunità Internazionale, il Governo cinese non sembra voler mantenere fede alle promesse di maggiore trasparenza e chiarezza in merito alla pena capitale. La grandissima influenza del Partito Comunista all’interno del sistema giudiziario fa sì che spesso i processi siano inficiati da bias di tipo politico e, malgrado le campagne di sensibilizzazione governativa, come quella portata avanti dagli Anni Cinquanta intitolata “uccidere meno, uccidere con cautela”, tutto sembra essere una politica di facciata. Non si hanno infatti prove tangibili della veridicità delle affermazioni da parte del Partito.
China Judgements Online
Nel 2013 venne pubblicato il database giudiziario China Judgements Online, presentato dal Governo come segno di una maggiore apertura e limpidezza. Il database non ha tuttavia fornito dati credibili sulle sentenze emesse. Le indagini condotte da Amnesty hanno dimostrato, ancora una volta, come la segretezza venga tutt’ora mantenuta e il numero delle condanne certamente sottostimato. Si pensa, infatti, che la Cina, come maggiore esecutore al mondo, arrivi a giustiziare migliaia di persone ogni anno. Numerosi sono stati i casi di esecuzione riportati da mezzi di comunicazione statali, che non compaiono nel China Judgements Online. Questo sistema esclude, inoltre, tutti i casi nei quali i detenuti uccisi o imprigionati nel death row siano stranieri, dei quali non viene fornito alcun rapporto.
Le sentenze vengono emesse per una moltitudine di reati, tra i quali crimini legati allo spaccio o al consumo di sostanze stupefacenti, incendio doloso e stupro. Attualmente sono quarantasei i reati punibili con la pena di morte. Una rinnovata coscienza sociale da parte del popolo cinese sta tuttavia aprendo la strada a riforme di carattere giudiziario per una maggiore equità e responsabilizzazione da parte dello Stato. Alcune di queste, introdotte in tempi estremamente recenti sono atte a tutelare persone accusate di reati capitali in modo che possano essere processati giustamente. Sono state approvate norme che vietano la legittimità in tribunale di prove incriminanti ottenute illegalmente. La tutela dei diritti stessi del condannato come l’obbligatorietà della videoregistrazione degli interrogatori, la visita da parte di avvocati difensori, prima e dopo il processo e dei parenti dell’imputato in caso di condanna.
Nonostante questi piccoli, ma del tutto significativi traguardi, la strada verso una maggiore trasparenza e giustizia nel Paese sembra ancora molto lunga.
Iran, Iraq, Egitto e Arabia Saudita
La questione della legittimità della pena di morte negli Stati islamici è estremamente complessa. L’esecuzione è infatti permessa dal Corano, testo sacro islamico. Conseguentemente i Paesi che identificano l’Islam come religione di Stato non possono considerarsi abolizionisti. Spesso la Sharia, le regole secondo le quali i fedeli vivono, viene strumentalizzata al fine di giustificare la pena capitale. Numerose sono infatti le interpretazioni di questa dottrina e sempre più crescente il numero di studiosi e religiosi musulmani che si oppone alle esecuzioni. Opposizione motivata non solo dalla arbitraria interpretazione dei versi Coranici, ma, inoltre, dalla consapevolezza che la religione venga utilizzata come strumento di oppressione sociale e politica. La pena di morte diventa, quindi, un mezzo al servizio dello Stato per arginare il dissenso, diffondendo timore e paura.
In Iran la pena capitale viene ancora largamente impiegata per una moltitudine di reati, la maggior parte dei quali non è riconosciuta a livello internazionale. Numerose sono le esecuzioni legate al traffico di droga o all’esercizio pacifico del diritto della libertà di espressione o di culto. Nell’agosto 2013, la sezione femminile della resistenza iraniana ha perso 106 delle sue attiviste, giustiziate in seguito alle opposizioni per l’ascesa al potere di Hassan Rouhani, attuale presidente dell’Iran. Le analogie con il regime iracheno sono spaventosamente numerose. Recentemente condannato dall’Ue per la crudeltà e il numero delle vittime, ha destato l’indignazione internazionale l’esecuzione, in un solo giorno, di ventuno persone condannate per accuse legate al terrorismo.
Anche in Egitto le esecuzioni costituiscono una vera e propria crisi umanitaria. Durante la presidenza el-Sisi la pena di morte è stata praticata ingiustamente secondo le normative internazionali. Migliaia di persone, inclusi bambini e minori, sono state giustiziate. L’Arabia Saudita, nel 2019, ha registrato il maggior numero di esecuzioni nella storia del Paese. Tendenza che ha visto un significativo declino nel 2020, con una diminuzione pari all’85%. Nonostante l’inversione di rotta sono ancora numerosi gli innocenti detenuti ingiustamente che rischiano la vita come l’attivista per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul. Condannata a cinque anni e otto mesi di carcere, tacciata dal regime saudita come terrorista. Sottoposta a elettroshock, frustata e abusata sessualmente, il 21 marzo 2021 ha perso il suo appello alla sentenza dopo tre anni di ingiusta reclusione e torture.
Fonti:
Credits: