I diritti delle popolazioni indigene e il rischio Covid-19

La morte per Coronavirus di un giovane indigeno Yanomami fa suonare un campanello d’allarme. La notizia riporta alla luce una questione internazionale spigolosa. I popoli autoctoni di tutto il mondo, dalle Americhe all’Australia, dall’Africa all’Asia, soffrono per l’opportunismo dell’uomo occidentale e a causa della mancanza di diritti fondamentali che li tutelino in toto.

Faide esterne e interne agli stati 

Come la storia ci mostra sin dall’avvio dell’epoca coloniale con la scoperta dell’America, le popolazioni locali di Sud e Centro America hanno subito soprusi e genocidi di massa, faide che ebbero luogo per ottenere il controllo dei territori e delle risorse presenti in essi da parte dei colonizzatori Europei.

Faide che tuttora si trascinano all’interno dei confini nazionali dei vari stati, dove i capi di stato non fanno nulla per impedire operazioni barbare quali l’espropriazione dei territori da parte dei cercatori di oro, o addirittura dove i politici stessi autorizzano operazioni di disboscamento e distruzione dell’ecosistema, ma non solo.

Questo accade anche in altri territori a livello globale, ad esempio ai danni degli aborigeni Australiani o dei Pigmei in Africa Centrale, ma anche in India e in numerosi stati africani, come segnalato dall’associazione Survival International, una ONG che si occupa di dare voce ai cosiddetti indigeni, attraverso petizioni e campagne internazionali.

 

La nostra reazione ai soprusi

I media però molto spesso ignorano tali soprusi e la questione è ancora totalmente aperta sul piano internazionale, mentre decine di migliaia di persone sparse per i vari continenti vengono decimate in silenzio. Adesso che il Covid-19 ha raggiunto anche loro, che sembrano sempre così distanti dalla nostra realtà, non si dovrebbe più fare finta di nulla. Se si vorrà impedire che l’epidemia faccia una strage tra gli indigeni, bisogna agire in fretta e con misure di salvataggio unitarie.

Fino ad oggi infatti a livello di diritto internazionale i paesi, soprattutto quelli più rilevanti a livello economico, tra cui anche l’Italia, non si sono esposti molto per salvaguardare e riconoscere pari dignità agli indigeni. Al contrario talvolta gli stati sfruttano le ambiguità del diritto per volgere le leggi a proprio favore. Altre volte, gli ordinamenti nazionali intraprendono azioni illegali nei confronti di comunità autoctone, noncuranti del diritto internazionale semplicemente perché quest’ultimo si rivela troppo debole o ancora troppo rallentato per contrastare l’effetto dannoso dei crimini stessi.

Ad esempio, nel 2019 la stessa popolazione Yanomami in Brasile ha denunciato un aumento dell’infiltrazione illegale di cercatori d’oro nella loro riserva naturale, che ha portato ad una massiccia distruzione delle risorse necessarie per la caccia e la pesca, ed ha contribuito a diffondere malattie come la malaria, con conseguenze letali per gli indigeni, i quali non possiedono sufficienti difese immunitarie per contrastarle.

Il presidente brasiliano Bolsonaro non si è premurato di rispettare il diritto vigente, anzi, dalla sua elezione al potere all’inizio dello scorso anno ha apertamente dichiarato la propria “guerra” agli indigeni, con l’approvazione di attività deplorevoli anche dal punto di vista ambientale.

La ricerca del diritto internazionale

Ripercorrendo la storia del diritto internazionale dei popoli indigeni, possiamo dire che essi iniziarono ad apparire sul campo politico e legislativo negli anni 1923-25 grazie all’iniziativa di due capi indigeni che non si conoscevano, ma che avevano un intento simile: chiedere il rispetto del loro popolo e dei territori da loro abitati ad un organo internazionale che potesse diffondere la loro voce, ovvero le Nazioni Unite. Il leader della tribù di indiani d’America Haudenosaunee e il capo religioso Maori Ratana viaggiarono alla volta dell’Europa nel 1925 per ricevere udienza, senza riuscirci.

 

Dalla WGIP alla Convenzione ILO N.169

Il dibattito sulle popolazioni indigene si pose in seguito alle Nazioni Unite intorno agli anni ‘80, quando divenne gradualmente necessario trovare una definizione adatta del termine “popoli indigeni” per poterne affidare i giusti significati, doveri e diritti. La definizione legale venne poi adottata nel 1982, anno in cui fu creata la Working Group on Indigenous Population (WGIP, in italiano “Gruppo di lavoro sulle popolazioni indigene”).

La Working Group on Indigenous Population, commissione ausiliaria delle Nazioni Unite, offriva l’opportunità a tali popoli di esprimere le proprie problematiche e condividere le loro esperienze a livello internazionale. Quest‘organo si sciolse nel 2007, venendo rimpiazzato dall’Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples (EMRIP, tradotto “Meccanismo di esperti dei diritti dei popoli indigeni”), tuttora attivo.

Fu però il 1989 l’anno in cui venne ratificato il documento più importante con valore vincolante ad oggi esistente. Esso protegge i diritti fondamentali degli indigeni, e fu siglato come Convenzione ILO n. 169 (dove ILO sta per International Labour Organization). Si tratta di un trattato con valore internazionale e tuttora aperto alla ratifica per i paesi che volessero aderire.

Al momento solo ventitré paesi lo hanno ratificato, tra cui Brasile, Paraguay, Honduras, Guatemala, dove le popolazioni indigene si concentrano maggiormente, e stati Europei quali la Spagna, la Danimarca e l’Olanda.

 

Continua la ricerca di una adesione totale degli stati

Tuttavia, è necessario che il maggior numero di stati possibile decida di firmare tale accordo, poiché esso rappresenta il maggior strumento di tutela ad oggi disponibile per le popolazioni indigene, operante a livello internazionale. Se grandi potenze quali gli Stati Uniti, la Germania, la Cina, ma soprattutto il nostro paese decidessero di aderirvi, l’ILO 169 potrebbe operare con maggiore affidabilità, poiché una sorveglianza più vigile sarebbe sottoposta a coloro che lo violano, o per lo meno questa dovrebbe esserne la conseguenza logica. A tale fine, ONG come Survival International, Friends of Peoples Close to Nature e Cultural Survival si battono per la ratifica a livello mondiale, anche attraverso petizioni popolari a cui ogni cittadino può dare il proprio contributo.

Le Nazioni Unite discussero poi negli anni altri strumenti di aiuto ai popoli indigeni. Un nobile esempio è la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni, adottata nel 2007 dall’Assemblea Generale. Essa stabilisce i diritti individuali e collettivi di tali popoli, mettendone in rilievo l’importanza dei singoli membri e definendone in modo preciso e complessivo i diritti fondamentali.  Come scritto sul sito del Dipartimento degli affari economici e sociali dell’UN, la Dichiarazione fu il risultato di venti anni di lavoro a partire dal 1985, anno a cui risale la stesura della prima bozza.

Quattro potenti nazioni espressero un voto contrario. Significativamente, molte popolazioni indigene avevano stabilito numerosi insediamenti in esse. Ad oggi, la Dichiarazione conta il voto di circa 140 nazioni, ma non è adottata con valore vincolate: essa funge da semplice strumento di guida per i paesi, ma non sortisce alcun effetto legale. Un parziale fallimento dal punto di vista dei diritti umani.

 

Cosa ci possono insegnare le tribù autoctone

Gli sviluppi storici descritti e le vicende contemporanee di perpetrati soprusi ai danni delle minoranze indigene dimostrano che c’è ancora molta strada da fare a livello globale, e finché non ci saranno azioni congiunte con a capo i paesi più importanti, di certo le condizioni di vita degli indigeni non potranno migliorare.

Finché non si inizieranno a ritenere di pari dignità tutti gli individui che abitano il pianeta terra e a rispettarne le identità, le origini e le usanze, annullando la paura per il diverso e soprattutto gli interessi capitalistici che portano alla distruzione di persone e ambienti, non potrà esserci un mondo sano.

Inoltre, le popolazioni indigene hanno molto da insegnare all’uomo occidentale. Esse infatti rappresentano la culla della vita, portando avanti forme societarie ed economiche che possono essere definite davvero sostenibili. Dare loro più diritti e preservarne la natura è un dovere degli stati industrializzati, i quali si sono sempre proclamati “stati civilizzati”.

Dovere, ma anche motivo di insegnamento sulla giusta gestione delle risorse naturali. Gli indigeni difatti vivono in armonia con l’ambiente, approvvigionandosi secondo il fabbisogno necessario ai membri della comunità, e non accumulando oltre il dovuto. Tutto ciò che viene preso dalla natura viene reimmesso in essa e a favore della comunità intera, minimizzando lo spreco e l’eccesso ma garantendo la sussistenza di tutti i componenti: un grande insegnamento, una filosofia trascurata dagli stati, impegnati continuamente nella creazione di profitto individuale.

 

In conclusione: agire a livello globale

Tornando all’attualità, se il Covid-19 permeerà le difese degli indigeni, la loro esistenza potrebbe essere spazzata via per sempre. La colpa, ad oggi, sarebbe degli stati che non hanno considerato seriamente le esigenze di queste popolazioni, né dato loro protezione. Il contagio di un ragazzo Yanomami è l’emblema di come il mondo sia globalizzato nonostante esistano comunità isolate dal sistema moderno, ma ciò vuol dire che è il momento di mettere da parte gli interessi economici e di pensare alla salute di tutti gli individui per sconfiggere la crisi, applicando i trattati sinora tenuti al margine, come i sostenitori dei diritti umani si propongono da sempre di suggerire.


Fonti:

La Repubblica

Survival International

United Nations

United Nations Human Rights Office Of The High Commissioner 

Credits:

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