Il caso di Musa: tra implicazioni etiche, politiche e sociologiche

Quando ho saputo della morte di Musa (per altri Moussa o Mussa, ma io adotto la presente grafia), per me non è stato come qualsiasi altro doloroso evento di cronaca: è stata la morte di un amico. Non soltanto per la nostra prossimità geografica, sia in Provincia di Imperia che a Torino. Nemmeno per l’età, essendo entrambi nati nel 1998.

Sinceramente, non ricordo di avere mai incontrato Musa, anche se probabilmente è successo molte volte: mi chiedo se nelle decine di sere in cui mi sono recato a Ventimiglia, con Rete Sanremo Solidale, per distribuire pasti caldi, vestiti e coperte ai migranti senza dimora, lui fosse lì.

Di ingiustizie ne ho viste tante, troppe. Uomini dormire per terra, sotto a un ponte, con quel poco di dignità rimasta che ancora brillava negli occhi, ma iniziava a indebolirsi. Ho visto uomini prendersi a pugni in faccia per mangiare. Bambini di meno di un anno vivere in condizioni igieniche che qui non intendo riportare. Quando sai cosa significa tutto questo, e l’unico favore che puoi fare, tanto al tuo prossimo, quanto a te stesso, è porgere una mano, allora credo che un po’ di amicizia si crei, inevitabilmente. E tuttavia, pur essendo stato, per settimane, inconsolabile, ho pianto nel silenzio del mio cuore. Cosa che non intendo più fare, e per questo vorrei qui esprimere tutto ciò che penso di questa disperata vicenda.

Chi era Musa?

Musa era nato nel 1998 in Guinea, un Paese dell’Africa Equatoriale. Una polveriera: uno Stato caratterizzato da uno dei peggiori dieci indici di sviluppo umano al mondo, una percentuale del 47% della popolazione sotto la soglia della povertà. In questo Paese, la mortalità infantile raggiunge il 13%, e soltanto il 20% dei guineani ha accesso ai servizi sanitari. La percentuale di analfabetismo raggiunge addirittura il 70%. E, come dicevo, una polveriera: a partire dal 2016, la lotta al potere tra gruppi etnici e le tensioni per il controllo delle miniere di bauxite, oro, diamanti e uranio (incredibile, vero?) stanno portando il Paese sull’orlo della guerra civile. Un ragazzo come me, o come Musa, ha solo una possibilità: andarsene.

L’aggressione

9 maggio del 2021, ossia cinque anni dopo. Ventimiglia. Tre uomini, uno armato con un posacenere a colonna pubblico, uno con un oggetto metallico allungato e un terzo a mani nude, si scagliano violentemente contro Musa, colpendolo ripetutamente, senza pietà, e lasciandolo a terra privo di sensi. Il tutto viene ripreso da uno smartphone, non ci sono dubbi sulla dinamica; ce ne sono, invece, sul movente dei tre uomini. Alcuni dicono molestie a una coppia, altri azzardano abuso sessuale di una ragazzina, il tutto in poche ore, fomentato dai titoli razzisti e legittimatori delle testate locali, le quali cercano di indovinare le ipotesi più disparate. Il tentato furto di un cellulare, diranno i tre aggressori. Stavo chiedendo l’elemosina e sono stato aggredito senza motivo, dirà Musa. Questo, oramai, non conta più: Musa è stato trovato impiccato con un lenzuolo la mattina del 23 maggio.

A Musa era stato diagnosticato un trauma facciale con una prognosi di dieci giorni. Successivamente, era stato trasferito a Torino, nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Corso Brunelleschi, in attesa di essere rispedito al mittente. Il ragazzo stava male, ha richiesto più volte di essere visitato da un medico, ma la richiesta non è stata accordata. Poi è stato posto in isolamento, il perché non è chiaro. Poi, il più disperato tra i gesti.

Questione di responsabilità

Dopo aver ripercorso la storia, voglio raccontare su chi ricade la responsabilità di questa disperata crisi dell’immigrazione che è in corso a Ventimiglia, almeno secondo le mie idee e la mia esperienza: sulle testate locali (chi le gestisce e chi le finanzia) e sulle leggi.

Partiamo dal presupposto che la Liguria è un colabrodo. Senza volermi dilungare troppo, stiamo parlando di una Regione indebitata fino al collo, con una sanità pubblica al limite del collasso (si pensi alla Provincia di Imperia, che ha solo due ospedali pubblici per oltre 200mila abitanti), una sola linea ferroviaria e strade inagibili, ancor più dopo il tragico crollo dei due ponti, in cui hanno perso la vita quarantatré persone. A un potere che non è in grado di sostenersi sull’evidenza della (inesistente) bontà del proprio operato, non resta che costruire un nemico e prometterci di difenderci. Non a caso, i partiti che detengono il potere in Liguria, in questo momento, sono quelli che a livello nazionale hanno reso la più fervida (e falsa) propaganda razzista degli ultimi anni. Credo che nominarli sarebbe superfluo. E quindi, come costruire questo nemico? Il mezzo più veloce e sicuro sono i media locali. Mi sto prendendo la responsabilità di quel che scrivo: i portafogli che permettono di mantenere aperti i quotidiani locali sono il segreto di Pulcinella. Non passa giorno che non esca un articolo nel cui titolo si afferma che “uno straniero ha fatto”, “uno straniero ha detto”, “uno straniero ha pensato”. Molte volte, si dice soltanto che un gruppo di migranti si sono radunati in un certo posto, senza poi giungere a nessuna conclusione; altre volte, sembra che sia stato uno straniero, poi si ritratta, ma intanto è stato detto; altre volte ancora, ci si inventa la notizia, come accaduto recentemente a Imperia, e ancora una volta mi prendo la responsabilità di quanto scritto.

Il Campo Roja

Fino al 2020, i migranti risiedevano in un centro di accoglienza, il Campo Roja, situato nella zona di Roverino (Ventimiglia) nel quale, oltre ad avere un alloggio sicuro e (quasi) dignitoso, potevano ricevere indicazioni sulle procedure legali per poter rimanere in Italia. Non credo sia un caso se nell’estate del ventiventi, a qualche mese dalle elezioni regionali, il campo è stato smantellato e non se n’è più parlato, se non fino a qualche giorno fa. Il maggio di quell’anno io ero a Resentello, sempre a Ventimiglia, con Rete Sanremo Solidale e con le tante associazioni politiche e non, a manifestare per richiedere di non chiudere il campo. Lessi ad alta voce una lettera che avremmo inviato al ministro Di Maio, e il mio compagno Davide lesse una lettera indirizzata alla ministra Lamorgese. Ci togliemmo tutti le scarpe, per protesta. Anche quando, due mesi dopo, mi recai a Ferrara per essere insignito di un premio letterario, mi presentai sul palco a piedi scalzi, per chiedere il sostegno delle sorelle e dei fratelli emiliani in questa lotta. Sapevamo le implicazioni che avrebbe avuto quel gesto politico. Ma quando accadde, l’odio non si riversò sui politici, bensì sui migranti stessi che, non avendo posti dove andare, invasero la città. I politici, invero, erano pronti a difenderci.

Le reazioni dei migranti

Musa non è la prima vittima di questa follia. Tanti sono morti cercando di raggiungere la Francia, tanti spazzati via dalle alluvioni (anche se nessuno lo ammetterà mai, è così), tanti per l’odio della gente. Aggiunti ai quarantatré del ponte di Genova, questa è la triste verità del potere che non conosce vita e morte, bianco o nero: dove va, spiana, e s’impone.

Il riversarsi dei migranti in città ha, di fatto, come era prevedibile, portato a crescere enormemente il tasso di criminalità. Questo fatto può essere analizzato sotto due punti di vista. Da una parte, è piuttosto logico che delle persone in grave difficoltà economica, diciamo, senza un tetto e senza cibo a sufficienza, si diano alla delinquenza. La paura di un luogo nuovo, sconosciuto e senza speranze, l’umiliazione di dover sempre dipendere da altri per la propria sussistenza, la fame, la frustrazione che deriva dalla stigmatizzazione sociale, la vergogna di mostrarsi pezzenti davanti a tutti: sono tanti gli stimoli che un migrante vive e che, repressi, portano inesorabilmente a forti stati di depressione e di aggressività. Per questo motivo, alcuni di essi hanno la tendenza a bere molto alcol, a rubare, a cercare lavori illegali come quello del commercio di droga (di certo, non fornita da altri migranti). Qui la “razza”, come qualcuno si ostina a chiamarla, centra poco (meglio razza che “etnia”, termine più politicamente corretto che si è di fatto sovrapposto al precedente, senza che il concetto decadesse). Ma vorrei affrontare questo argomento anche da un tema più prettamente sociologico, e qui scoveremo il secondo grande responsabile: la legge.

Una prospettiva sociologica

Nel 1963, negli Stati Uniti, veniva pubblicata Outsiders, la raccolta di saggi che avrebbe reso famoso il sociologo Howard Saul Becker. In questo testo veniva ampiamente trattata la labeling theory, o teoria dell’etichettamento. Questa sosteneva che coloro che commettono anche solo un reato, per innocuo e trascurabile che sia, divengono poi criminali cronici, per definizione, da cui il termine etichettamento. Il colpevole, dopo essere stato condannato, passa definitivamente dallo stato di cittadino a quello di delinquente. Questo avviene per via della stigmatizzazione sociale, della nuova rappresentazione pubblica e personale dell’individuo, nonché della mancanza della possibilità di stringere relazioni sociali, in parte dovuta anche all’isolamento materiale imposto da istituzioni totali come il carcere (ma anche il Campo Roja). Ovviamente, questo processo non avviene sempre, ma in casi particolari. Uno di questi contesti individuato da Becker è, per l’appunto, quello in cui il reato sia particolarmente paventato dalla società in cui avviene (vedere quanto scritto sopra). Volendo proseguire, il sociologo americano sostiene che questo processo di etichettamento sia più frequente per episodi di microcriminalità, compiuti da individui di classi molto basse, che non detengono i mezzi materiali né simbolici per affrancarsene. E questo, di per sé, dimostra come la legge non sia uguale per tutti.

Una figura ambigua

Ma ora riflettiamoci. Come è possibile un’integrazione, o meglio, un’inclusione, o anche solo una non delinquenza, finché esiste una legge che ti giudica colpevole solo per il fatto di esserci? Il clandestino è sempre colpevole, dal momento in cui arriva, finché rimane. La sua colpa è quella di esserci, e lui è un delinquente, un criminale. Non può scegliere il bene o il male perché, a prescindere, sarà colpevole. Ed è da qui che iniziano, senza che ce ne accorgiamo, i processi di etichettamento. A partire da una legge sbagliata. Forse, molti di noi pensano che la legge sia giusta anche solo per il fatto di essere legge, e quindi vada rispettata acriticamente, senza “se” e senza “ma”. Io dico di no, non quando la legge viete vittime. Nei secoli scorsi, in diverse parti del mondo, l’antisemitismo era legge, il divieto di essere omosessuali era legge, lo schiavismo era legge, il razzismo e la segregazione erano legge. E in quei tempi, in quei posti, c’erano cittadini che probabilmente avranno pensato la stessa cosa: la legge è sempre giusta, va rispettata a prescindere. Non scorderò mai la mia prima lezione di Sociologia Generale, all’università, quando il docente Turi Palidda, poco dopo essere entrato in classe, affermò: “La prima causa della criminalità è la legge!”. Lì per lì, sbuffai, mi sembrava un’ovvietà. Non sapevo che cinque anni dopo gli avrei dato tutta la ragione del mondo, mentre piangevo il mio amico Musa.

Il potere illegittimo

Vorrei concludere con questo messaggio: nella storia si è invaso, si è ucciso, si è massacrato, saccheggiato, distrutto per via di qualcosa che non esiste. I confini. Siamo partiti dalla tragica morte di un ventitreenne guineano, una storia come tante, ultimamente sempre più, per percorrere tutta la vicenda fino al nocciolo, e io credo che il nocciolo sia questo. In un’Italia in cui formaggio, vino, pasta e tanti altri generi alimentari vengono esportati, non è possibile che esseri umani non possano entrare. In un mondo che si basa sulla liberalizzazione del trasporto di merci da periferie a centri per alimentare l’edonistico stile di vita immaginario di una popolazione grassa, superficiale e superflua, nonché per ingrossare il capitale dei sempre più ristretti centri del potere, non trovo sensato che gli stessi spostamenti non abbiano il diritto di effettuarli coloro che sono bisognosi e cercano soltanto una vita dignitosa. Musa è stato rinchiuso in un CPR, perché volevano rimandarlo in Guinea. E la bauxite? L’oro? I diamanti? L’uranio? Quelli, perché non c’è tutta questa fretta, questo desiderio di rispedirli in Africa?  Finché esisteranno frontiere, esisterà un solido punto di appiglio per il potere illegittimo, il quale costruirà se stesso sui cadaveri di chi è dichiarato colpevole anche per il solo fatto di esistere.

E se credete, ora,
che tutto sia come prima,
perché avete votato ancora
la sicurezza e la disciplina,
[…]
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte:
per quanto voi vi crediate assolti,
siete per sempre coinvolti!

Alessio Bellini

Combattente d’armi di Elzevirus

 

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