La Corte saudita, dopo mille giorni di detenzione, il 10 febbraio ha scarcerato Loujain al-Hathloul, attivista da anni impegnata nell’affermare i diritti delle donne.
Scarcerata sì, ma non libera. Dovrà, infatti, scontare ancora tre anni di libertà vigilata e per cinque anni non potrà uscire dal suo Stato, nemmeno per viaggiare o per ricongiungersi con la propria famiglia, residente in Belgio.
Ma qual è la sua colpa, quell’ineccepibile oltraggio alla legge che l’ha rinchiusa in una cella detentiva?
Volere la libertà. Sì, proprio così, la libertà: propria e del suo popolo. Perché in uno Stato, oppresso da una monarchia assoluta, come l’Arabia Saudita, ambire ai diritti naturali dell’individuo è un crimine.
Assurdo no? Se poi si pensa che il tema dei diritti naturali veniva già trattato tra il IV e il III secolo a.C. dai filosofi greci, per poi ottenere la sua massima risonanza durante l’Illuminismo, vedere, nel 2021, scenari simili, potrebbe far dubitare della teoria dell’evoluzione di Darwin.
Il movimento Women to drive
Loujain al-Hathloul ha trentuno anni ed è un’attivista che lotta a fianco del movimento Women to drive. Il suo impegno si concentra soprattutto verso il diritto alla guida delle donne e la fine del sistema di tutela maschile. Questa tenacia nell’affermare i propri, e fondamentali, diritti, in uno Stato come l’Arabia Saudita, le ha causato non pochi problemi con la legge.
Nel 2014, precisamente il primo dicembre, le autorità saudite arrestarono Loujain e la condussero in carcere, dove rimase per 73 giorni. L’attivista, come gesto di protesta contro il divieto di guida femminile, aveva cercato di attraversare con la propria auto il confine: partendo dagli Emirati Arabi Uniti verso l’Arabia Saudita. L’impresa venne interrotta dagli agenti e Loujain arrestata.
Circa tre anni dopo, il quattro giugno 2017, la polizia saudita arrestò Loujain una seconda volta, mentre si trovava all’Aereoporto Internazionale di Dammam-Re Fahd. Pure in questo caso venne incarcerata. La ragione dell’arresto, tuttavia, non è tutt’ora chiara, tanto da sospettare un arresto indebito. Ad accalorare ancora di più questo sospetto, vi è la mancata concessione a Loujain, da parte delle autorità, di assistenza giuridica e di contatto con la famiglia.
Nel novembre del 2015, dopo che la monarchia saudita concesse il diritto di voto femminile, si candidò alle elezioni. Il suo nome, però, non apparve nelle liste, nonostante l’ufficializzazione della sua candidatura. Evidentemente le autorità saudite si erano fatte sentire.
Il divieto di guidare
Come già detto Loujain ha condotto, insieme a Manal al-Sharif e Iman al-Nafjan, la campagna Women to drive, impegnata nella sospensione del divieto di guida per le donne saudite. Il divieto è stato introdotto nel 1990, durante la guerra del Golfo.
I sostenitori di Women to drive, negli anni, hanno organizzato varie proteste contro questa proibizione. Una norma che andava a ledere, rovinosamente, la libertà personale delle donne, già molto debilitata dal regime.
La campagna, dopo una serie di proteste, tra cui una sul web (diffusione di video che riprendevano donne saudite intente alla guida) terminò con un’apparente vittoria. Mohammed bin Salman, principe ereditario, emanò un decreto reale che stabiliva la concessione delle patenti di guida alle donne, a partire da giugno 2018. Decreto sì, ma puramente formale! Perché le donne alla guida continuavano a essere arrestate.
Sempre nel 2018, Loujain venne arrestata per aver violato delle norme sulla sicurezza nazionale. L’accusa era di aver trasmesso informazioni a Paesi nemici dell’Arabia e di aver parlato con giornalisti e diplomatici, per candidarsi a un impiego nelle Nazioni unite. Loujain non fu la sola a essere arrestata: insieme a lei, finirono sotto processo altre attiviste della campagna Woman to drive. Le autorità saudite, in seguito, trasferirono il processo a un tribunale specializzato nei casi di terrorismo.
Il carcere
La Corte saudita giudicò lei e le altre attiviste colpevoli, condannandole alla pena detentiva.
Loujain racconta che in carcere è stata sottoposta alle peggiori sevizie: torture e abusi sessuali. Ma non si è arresa e ha provato a combattere, per quanto possibile nella sua situazione, quel sistema malato e ingiusto. Infatti, per denunciare le pessime condizioni di detenzione, Loujain ha iniziato uno sciopero della fame, nel mese di ottobre 2020. I carcerieri, a quel punto, le avrebbero offerto la libertà se avesse dichiarato di non aver subito alcun tipo di tortura. Loujain rifiutò.
Il 28 dicembre 2020, la Corte saudita ha poi ufficializzato la condanna definitiva, che prevedeva una detenzione di 5 anni e 8 mesi. Nel mese di febbraio 2021, Loujain è riuscita a ottenere la libertà condizionata che, come è già stato detto a inizio articolo, durerà per tre anni.
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