Ebru Timtik: tra dignità, potere e priorità

Non mi sembrava opportuno esprimermi a riguardo, ma negli ultimi giorni, dopo che mi è stata rammentata la notizia della morte di Ebru Timtik, avvenuta ormai otto mesi or sono, non ho saputo resistere.

Effettivamente, devo ammettere che non ricordavo la vicenda, perciò ho deciso di indagare tra i miei contatti più fidati: “Tu lo sai chi è Ebru Timtik?”; e no, nemmeno una risposta positiva. Nessuno lo sapeva. E allora lasciate che ve lo ricordi.

Chi era Ebru Timtik

Ebru era un’avvocata e ha dedicato la propria vita alla lotta per l’ottenimento dei diritti umani, ciò che spesso e volentieri, per utilizzare un eufemismo, è negato all’interno di regimi come quello presieduto da Recep Erdogan. Non ho intenzione di soffermarmi in merito, perciò invito chi fosse estraneo a tutto ciò a informarsi in maniera autonoma.

Tant’è che Ebru, dopo essere stata condannata ingiustamente come terrorista, ha deciso di intraprendere una protesta, insomma, uno sciopero della fame; una protesta che, nel giro di duecentotrentotto giorni, l’ha condotta alla morte. Aveva 42 anni, il suo peso era di trenta chili.

Il lungo elenco di chi sacrifica la propria vita per la dignità

Altra brutta notizia: Ebru non è un caso eccezionale. Tanti hanno tentato di difendere la verità opponendosi all’autorità illegittima, tanti hanno scioperato tramite il digiuno, tanti sono morti: Ibrahim Gokcek, Helin Bolek, del gruppo musicale Grup Yorum, e Mustafa Koçak. Inutile proseguire l’elenco, la lista è tristemente lunga. Altra brutta notizia: la cosa non scandalizza a dovere.

O almeno, per dirla in termini più assertivi, mi sentirei più rassicurato se la cosa scandalizzasse almeno quanto il fatto che Ursula Von Der Leyen sia stata invitata a sedere su un divanetto laterale piuttosto che al centro della stanza in un incontro diplomatico con l’Unione Europea. Fa male l’idea che la vita di persone che si sono veramente e spontaneamente sacrificate per il ribilanciamento della dignità di un popolo in ginocchio passi in secondo piano rispetto alla presunta disposizione di stampo machista del mobilio nei confronti del nuovo archetipo pseudo-femminista, per i media, martire della politica internazionale di derivazione androcratica. I giornali hanno gridato allo scandalo, alla morte della democrazia, al vilipendio, hanno richiesto a gran voce le dimissioni del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che ha osservato la scena senza accennare alla minima protesta. Mi piacerebbe sapere quanti altri anonimi hanno perduto ingiustamente le proprie vite mentre la massa si stracciava le vesti per un sofà.

Questione di potere…

Io non dico che sia tutto falso. Non tutto. Il maschilismo è una questione di potere, ma il potere è sempre una questione di esserci. Chi c’è, chi ha il potere, è il potere. E Von Der Leyen, lei c’è. Lei è sulle labbra della gente, nei telegiornali, sui giornali, nei post di tutti i social network, nello sdegno generale e diffuso. Questo non è vero maschilismo, perché Von Der Leyen non è vittima del potere. Von Der Leyen è il potere. Le è bastato sedere a lato invece che al centro per avere dalla propria parte l’intero mondo pronto a difenderla, a servirla incondizionatamente. Le è bastato sedersi su un divano per ottenere l’adorazione e la beatificazione da parte di un’Europa in estasi mistica. Non c’è dubbio, ella è il potere.

Il potere che forza la donna al di fuori della scena, però, è lo stesso potere che bombarda Makhmour, Sinjar, Qandil, Zap e Xakurk. Se siete estranei anche a questi fatti, direi che il piano ha funzionato alla perfezione.

…e di priorità

Lo scorso 15 giugno, mentre le reti Rai erano occupate a spulciare il covid, i giornali nazionali a raccontarci le incredibili reazioni di Flavio Insinna dopo le risposte dei concorrenti dell’Eredità e l* vari* associazion* simil-comunist*, progressist*, ur-liberal*, l* Sardin*, Lorenz* Tos* e Andre* Scanz* erano occupat* erano occupati a difendere a spada tratta la Von Der Leyen di turno, la flotta aerea di Erdogan bombardava ben ottantuno località del Kurdistan, perlopiù abitate da civili. E non nego che mi sarebbe stato, ancora una volta, quantomeno rassicurante percepire metà dell’indignazione che è stata espressa in occasione del Sofa Gate.

E questo ci dice molto. Ci racconta di quello stesso potere che per mantenersi e autolegittimarsi si serve anche degli strumenti più insospettabili, come il progressismo, per esempio, nel quale convoglia le energie del mainstream nazionale al fine di distrarlo da quella consapevolezza che farebbe inesorabilmente crollare l’establishment. Chi quel potere lo sostiene diviene dunque strumento del potere o, per dirla alla Foucault, è egli stesso il potere; e così, mentre ci si indigna per piccoli episodi di politicamente scorretto, famiglie, attivisti, popoli di tutto il mondo perdono la vita in ogni istante nel silenzio, nell’indifferenza più totale. Semplicemente perché essi potere non ne hanno, il potere non lo sono.

Per citare un celebre cantautore, credo che prima che le cose cambino veramente (cioè che la vittoria sia l’indipendenza di una nazione martoriata dalle guerre, il riconoscimento dei diritti di tutte e tutti, l’armonia tra i popoli, e non che la donna più ricca e autoritaria d’Europa possa sedere a fianco di un dittatore turco), avremo ancora diversi problemi da affrontare: il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto.

Alessio Bellini

Compagno d’armi di Elzevirus

 

Fonti:

Repubblica.it

Avvenire.it

Notiziegeopolitiche.net


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